Il 22 gennaio del 1971 muore a Roma, Alfredo Signoretti. Forse molti cittadini di Capranica hanno sentito il suo nome soltanto nel titolo della locale biblioteca comunale, ma la fama di Signoretti è molto più ampia fuori delle patrie mura di quanto invece non lo sia nel suo Paese natìo. Giornalista e scrittore, il suo lavoro lo porta a dirigere grandi giornali quotidiani nazionali in città lontane dal suo “paesello”, come amava definire Capranica, con relativa e conseguente poca presenza nella vita sociale del Paese. Sicché la sua notorietà ha finito via via per offuscarsi e addirittura perdersi.
Ma il motivo per cui il suo nome ha finito spesso per essere nascosto e quasi occultato, è probabilmente per la sua fede politica. Almeno per quella che abbraccia nella prima metà della sua vita. Signoretti infatti è un fascista della prima ora, “antemarcia” si sarebbe detto un tempo, uno che sostiene con entusiasmo le idee sansepolcriste. Tuttavia è anche un giornalista fascista di quelli con il “ma”, come lo definisce in un suo scritto Gennaro Pistolese, che ha modo di collaborare con lui negli anni Sessanta. E' un giornalista di quelli che se da una parte non rinnega il proprio passato, raccontandolo anche sui libri senza nascondersi e vergognarsi, dimostra di avere tuttavia delle riserve e delle pregiudiziali che, una volta riconosciute, gli consentono di reinserirsi con successo nell’attività editoriale nell’Italia del dopoguerra. Ma andiamo con ordine.
Signoretti nasce a Capranica il 19 febbraio 1901, in una casa di Via degli Anguillara, da Antonio, di professione “vetturale” e da Teresa Mantrici. La sua famiglia è di umili origini. Il nonno possiede un paio di ettari di vigneto che vengono coltivati da suo padre e dagli altri familiari: tanta terra quanto basta da poterci ritrarre il sufficiente per mangiare. «I guai – come ricorda lui stesso nel suo libro Come diventai fascista – cominciavano quando occorrevano dei soldi liquidi per le compere».
Lo zio materno, Terenziano, è il proprietario e gestore di un caffè molto frequentato dai pochi «personaggi evoluti del paese». La madre Teresa, muore quando Alfredo non ha ancora compiuto 4 anni, il 27 ottobre 1904 (gli dedicherà le poesie Ventisette di Ottobre e Madre, in Canto Etrusco). Affidato alle zie, viene educato cristianamente e accompagnato alla messa quotidiana, tanto che ai famigliari viene consigliato di favorirne l’avvio verso il seminario. Tuttavia, Alfredo cresce con un forte spirito patriottico che viene suscitato in lui da alcuni libri che legge durante l’infanzia e l’adolescenza, anche se non aderisce ai sentimenti anticlericali che serpeggiano diffusamente a Capranica (e men che meno a quelli che gli vengono incoraggiati dal suo maestro elementare). Messa da parte definitivamente, da parte del padre, l’idea di inviarlo al seminario diocesano, Alfredo è affidato alle cure dell’arciprete Sante Formaggi, che lo segue a casa propria per il primo anno di ginnasio. Sostiene l’esame di ammissione alla seconda ginnasiale come privatista, quindi si iscrive al Liceo Terenzio Mamiani, allora in Corso Vittorio Emanuele, vicino alla Chiesa Nuova di San Filippo Neri. Per seguire le lezioni si trasferisce a casa di un cugino del padre, in Via Marcantonio Colonna, e tutti i giorni si reca a piedi a scuola, dall’altra parte del Tevere.
L’inizio della Grande Guerra lo coglie alla fine di una trionfale terza ginnasiale, che lo vede premiato come miglior studente del Liceo, nonostante i sacrifici che è costretto a fare e le bullizzazioni – diremmo oggi – che subisce dai suoi compagni di classe, tutti provenienti da famiglie benestanti e altolocate. Nel 1918 conclude la maturità, anticipandola di un anno, con una media di 85 su 100, anche se lo sforzo nello studio accompagnato a quello delle lezioni private, che comincia a dare ad alcuni suoi compagni per mantenersi negli studi, gli provocano un esaurimento nervoso da cui si riprende solo dopo qualche mese di riposo a Capranica.
Nell’autunno dello stesso anno partecipa attivamente all’assistenza ai malati affetti da influenza spagnola, che a Capranica sono particolarmente numerosi. Esperienza, questa, che lo forma nello spirito e che ricorderà per sempre con molto orgoglio, ma che paga con il contagio e con l’acuirsi del suo esaurimento nervoso. Dopo l’inverno, si iscrive finalmente alla facoltà di Lettere e Filosofia grazie a 700 lire che il padre riesce faticosamente a risparmiare per farlo studiare. Questo sarà l’ultimo aiuto economico che riceve dalla famiglia. Alla Sapienza, ancora ospitata nel palazzo di Sant’Ivo in Corso Rinascimento, ha come suoi professori Ernesto Buonaiuti, Bernardino Varisco, Giovanni Gentile, Luigi Ceci, Cesare De Lollis. Alcuni di questi diventano per lui dei veri e propri modelli. Preferisce infatti «…le frasi smozzicate, ironiche di Bernardino Varisco e l’esposizione piana, pur con un eloquio scarno e talvolta rozzo del professore di psicologia De Sanctis» (CDF 49), all’eloquio pomposo ed esaltato di Gentile.
E’ durante il primo anno di università che comincia a maturare la sua simpatia per gli ambienti nazionalisti italiani che reclamano il fedele rispetto del Patto di Londra del 1915, con la pretesa della sovranità italiana sull’Istria e la Dalmazia. Ritiene tuttavia il nazionalismo troppo angusto per le proprie aspirazioni personali, e il 23 marzo 1919 saluta con entusiasmo e favore l’adunata di piazza San Sepolcro, a Milano, in cui vengono fondati i fasci di combattimento. A contatto quotidiano con compagni di corso di idee socialiste, cattoliche, comuniste, ha modo ogni giorno di confrontarsi con essi convincendosi sempre di più della giustezza del proprio punto di vista. Scrive infatti su Come diventai fascista, che «le mie idee, le mie scelte avvenivano nel clima più libero e più antidogmatico, in uno scontro continuo di tesi e di antitesi, con una mente giovanile avida e prensile». In occasione del primo anniversario dell’entrata in guerra dopo la vittoria, il 23 (o il 25 maggio) 1919, si iscrive al Fascio Romano di Combattimento. In questa occasione incontra Benito Mussolini, che ha modo di ascoltare per la prima volta alla fine di maggio, dopo un discorso, che il futuro Duce pronuncia la sera tardi, nella sala dei Parrucchieri, a via Cavour. Da quel momento, scrive, «il prestigio, l’autorità di Benito Mussolini crescevano continuamente nel mio spirito» (CDF 65).
In questo frangente nasce la sua amicizia con Enrico Rocca, che lo invita allo studio delle opere sociologiche di Vilfredo Pareto che, come scrive in Come diventai fascista, «…segnano un punto fermo nella mia vita: di ogni problema, di ogni situazione cominciai subito, naturalmente nei limiti delle mie capacità intellettive, a separare quelli che erano i dati essenziali e cioè gli interessi e le passioni da quelle che erano le frange accessorie delle ideologie, delle spiegazioni dottrinarie». Dopo l’impegno per la campagna elettorale a Capranica, e la delusione per i risultati delle elezioni politiche dell’autunno del 1919, che vedono il trionfo di socialisti e cattolici a fronte della manciata di voti ottenuti dalla lista fascista, comincia la collaborazione con il Popolo d’Italia, il giornale diretto da Mussolini, per il quale scrive con una certa regolarità anche se con compensi modesti e non regolari.
Tra alti e bassi conclude gli esami e si dedica alla stesura della tesi di laurea, sul rapporto tra Chiesa e marxismo. Partecipa quindi alla Marcia su Roma, durante la cui preparazione conosce Gino Calza-Bini – che però non ama – e fa amicizia in particolare con Giuseppe Bastianini e Giuseppe Bottai. A metà di novembre del 1922, quando non ha ancora compiuto 22 anni, si laurea dottore in lettere e filosofia, relatore Prof. Michele Rosi, ottenendo 110 con lode e la pubblicazione della tesi. La collaborazione con giornali e periodici si va infittendo nel 1923, quando comincia anche ad insegnare al Liceo Mamiani. Durante lo stesso anno è chiamato al servizio militare e partecipa all’occupazione di Corfù come addetto alla censura della corrispondenza dei militari. Terminato il servizio militare, ottiene un contratto per 500 lire al mese con la Rassegna Italiana, e collabora alla rivista politica diretta da Mussolini, Gerarchia, con una rubrica di politica estera (Speculum) e con altri articoli di politica. Diviene amico dell’antifascista Girolamo Pedoja, dell’ufficio romano del Corriere della Sera e di Adriano Tilgher, intellettuale napoletano, quindi nel 1925 viene chiamato da Edmondo Rossoni a sostituire Armando Casalini, dopo la sua tragica fine e la successiva temporanea reggenza di Romualdo Rossi, alla redazione dell’organo settimanale delle Corporazioni, il Lavoro d’Italia, e della rivista mensile La Stirpe.
Ma la svolta arriva nel 1929, quando Curzio Malaparte lo chiama a dirigere l’ufficio romano di corrispondenza de La Stampa di Torino. Qui ha modo di distinguersi soprattutto per pezzi di politica internazionale che gli frutteranno la chiamata da parte del Senatore Agnelli a direttore del prestigioso giornale. La sua nomina viene formalizzata il 13 agosto 1932, quando Signoretti succede ad Augusto Turati, costretto alle dimissioni dopo essere scivolato su un’avventura galante. E’ il Duce stesso che avalla la sua nomina in una vera e propria investitura ufficiale che ha luogo a Roma, durante un colloquio privato. Su Turati gli dice: «Il vostro predecessore ha dovuto lasciare il suo posto per un incidente che potremmo definire erotico. A me non interessa la vita dei fascisti che dalla cintola in su; ma vi sono delle situazioni in cui non si può fare a meno di intervenire». Sulla direzione: «Un direttore deve leggersi il giornale dalla prima all’ultima parola, compresi gli avvisi economici». E sulla condotta morale che deve tenere nello svolgimento del suo ruolo: «Voi siete giovane. Vi raccomando di essere guardingo con le gonnelle, specie con quelle delle donne di una certa età che si attaccano al terreno come le vecchie fanterie».
Ottenuto il placet dal capo del fascismo, la direzione di Signoretti si protrae fino alla caduta del regime, il 25 luglio 1943. Durante questi 11 anni, il giornale subisce una notevole trasformazione. Il direttore generale della FIAT, Vittorio Valletta, che si occupa personalmente della testata per conto della proprietà, avvia con la collaborazione di Signoretti una importante modernizzazione, che vede lo spostamento della redazione nella nuova sede di Via Roma, l’acquisto di nuove rotative, il lancio dell’edizione della sera, l’adozione di nuovi caratteri di stampa, l’espansione della distribuzione in Lombardia. E’ così che il giornale può finalmente vincere la sfida contro l’altra testata torinese, La Gazzetta del Popolo, passando dalle 176.000 copie di tiratura, all’inizio della direzione di Signoretti, alla cifra record di un milione e trecentomila copie dell’edizione del 9 maggio 1936, giorno della proclamazione dell’Impero, che verrà celebrata con un calco in bronzo. Inoltre Signoretti gode di ampia libertà di manovra da parte del regime che, data la sua adesione al fascismo dall’antemarcia, è sicuro di avere a che fare con l’uomo giusto nel posto giusto.
Nel frattempo, il 15 dicembre 1934, nella chiesa di San Martino ai Monti, a Roma, Signoretti sposa Rosa Autieri, dalla cui unione nasceranno i figli Bruno e Paolo (ad una sua figlia morta dopo due giorni dalla nascita, Signoretti dedica la poesia Pasqua a Chicago, in Canto Etrusco). Ma è il lavoro che solo lo distoglie dalla malinconia «eterna compagna della mia vita» (Malinconia, Canto Etrusco). Suo capolavoro è la terza pagina del giornale, che amava definire “l’angolo magico”, a cui chiama a collaborare intellettuali di spicco e rappresentanti di prestigio del mondo culturale del tempo, come Alberto Savinio (che cura la rubrica “La Torre di guardia”), o come Corrado Alvaro, firmatario del manifesto Croce degli intellettuali contro il fascismo, e poi Piero Gadda, Carlo Linati, Giani Stuparich, Titta Rosa ed altri ancora. L’intento di Signoretti è quello di contrapporsi al Diorama letterario de La Gazzetta del Popolo, in una scommessa che finirà per vincere, portando il giornale ad una tiratura media di oltre 300.000 copie. Tuttavia, il conformismo del resto del giornale alla politica nazionale, fa’ giudicare severamente il lavoro di Signoretti da parte di Benedetto Croce, che dopo un anno dalla sua nomina a direttore, valuta La Stampa come “illeggibile (…) istupidito giornalismo italiano”.
Durante il periodo che segue l’8 settembre, che lo vede libero da impegni di direzione, Signoretti si dedica alla scrittura, pubblicando nel 1946, il saggio Gli Stati Uniti dalle origini ai nostri giorni. L’avvento della Repubblica e la riorganizzazione della destra monarchica, lo vede quindi chiamato a dirigere dapprima, nel 1948, il quotidiano catanese La voce dell’Isola, e successivamente, dal 1950 al 1958, chiamato da Achille Lauro, il quotidiano napoletano Roma. Si dedica ancora alla scrittura pubblicando in successione Canto Etrusco (raccolta di poesie, 1963), il saggio Storia degli Stati Uniti d’America (1966), e i due libri di memorie Come diventai fascista (1967) e La Stampa in camicia nera (1968), quest’ultimo dedicato agli 11 anni di direzione del giornale torinese. Inoltre fonda e dirige il mensile di politica ed economia Libera iniziativa e partecipa alla Strenna dei Romanisti degli anni 1964, 1966, 1967.
Una copertina del periodico "Libera iniziativa", fondato da Signoretti
Alla soglia dei settant’anni, Signoretti muore improvvisamente la sera del 22 gennaio1971, presso l’Ospedale San Camillo di Roma, dove era stato ricoverato in seguito ad un malore di origine cardiaca. I funerali hanno luogo nella Chiesa dei Sette Santi Fondatori a Roma in Piazza Salerno. La Chiesa è gremita di personaggi del mondo del giornalismo, della politica, della cultura. Sono presenti il Presidente della Camera, on. Sandro Pertini, l’On. Gonella, Presidente Nazionale dell’Associazione dei Giornalisti, ed i più bei nomi del giornalismo del tempo, molti dei quali suoi collaboratori negli anni di direzione dei grandi giornali quotidiani, da Mattei a Giovannini, da Malgeri a Zingarelli e molti altri ancora. Il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, che solo due giorni prima lo ha ricevuto in udienza a Castel Porziano, invia alla vedova ed ai figli un suo telegramma.
In una giornata di pioggia inclemente, la salma viene inumata nel cimitero di Capranica. Il giorno prima di morire ha composto la sua ultima poesia: “ventun gennaio”, che a causa del tempaccio non può essere letta dai suoi amici capranichesi durante la cerimonia di commiato. Sarà letta dal suo amico Antonio Maria Speranza, durante un momento di ricordo della sua persona, a margine di un consiglio comunale il maggio successivo. Il Sindaco Pier Luigi Nicolini propone di intitolare a Signoretti la biblioteca civica. La proposta viene approvata il 24 febbraio 1971 dalla Giunta Comunale e l’intitolazione ufficiale avviene il 7 luglio 1971 con una lectio magistralis di Paolo Cavallina, giornalista di radio Rai e già direttore de La Gazzetta del Popolo.
Signoretti non ha mai rinnegato di essere stato fascista, quasi con punta di orgoglio, rimanendo comunque nell’alveo della destra moderata italiana del dopoguerra. Anzi, ha sempre deplorato chi – e tra questi moltissimi suoi colleghi giornalisti – si è riciclato nel nuovo sistema politico-economico repubblicano negando la propria adesione al fascismo durante il ventennio. Ventennio che secondo Signoretti non può essere soppresso con un tratto di penna, in maniera aprioristica, ma che va studiato a fondo «in quanto – come scrive in La Stampa in camicia nera – non vi sono parentesi nella storia di un popolo ma tutto si tiene sul filo del tempo». E d’altra parte – il monito finale di Signoretti – «guai a rimasticare problemi e situazioni di una o due generazioni fa, tanto essi hanno cambiato aspetto».
Fabio Ceccarini - articolo apparso su "La Loggetta", 126 (XXVI) - primavera 2021
Per citare questo articolo
CECCARINI, Fabio, «La stampa in camicia nera. Un profilo di Alfredo Signoretti a cinquant’anni dalla morte», Capranica Storica, 03/12/2021 - URL: https://www.capranicastorica.it/2021/12/la-stampa-in-camicia-nera-un-profilo-di.html
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