giovedì 5 maggio 2022

Festa di maggio. La festa "delle Grazie" nei ricordi di Giuseppe Morera

di Giuseppe Morera

In occasione della ripresa delle tradizioni annuali capranichesi, ferme per due anni a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria per il covid-19, pubblichiamo questo articolo di Giuseppe Morera, apparso per la prima volta nel 1983 all’interno del libretto “Tragececo. Racconti Capranichesi”, riguardante la festa della Madonna delle Grazie.

A Capranica la contabilizzazione delle date che si riferiscono al mese di maggio, non avviene come in tutto il resto del mondo, specificando il giorno e il mese, oltre naturalmente l'anno. Si prende invece come punto di riferimento la festività della Madonna delle Grazie, o meglio della “Madonna de’ Grazie”, come questa sagra, che cade nella seconda domenica del mese mariano, viene chiamata da tutti, anche da coloro che anziché il dialetto più o meno accentuato, parlano in perfetta lingua italiana. Di «Madonne delle Grazie», chiese, località, conventi, ce ne sono in Italia un numero infinito; la “Madonna de’ Grazie”, è solo quella dei capranichesi tutti; dei quattromila che risiedono nel paese di nascita e dei quasi duemila emigrati per la maggior parte a Roma ma anche sparpagliati in tutta la zona centro nord della penisola.

Si dice dunque correntemente prima, oppure dopo, oppure per la Madonna de' Grazie, per indicare una data - prima, o dopo - la seconda domenica di maggio o con questa coincidente.

Nel 1958, la seconda domenica di maggio era il giorno undici. Una bellissima giornata di sole di piena primavera, quando il mare di verde che circonda Capranica assume lo smalto lucente delle foglie nuove ed è sottolineato dalle macchie gialle dei fiori di ginestra, dal blu scuro dei gigli selvatici che crescono ai bordi delle strade incassate, e dalle manciate di candida neve dei biancospini in fiore.

Dalle undici a mezzogiorno di quel giorno, centinaia e centinaia di automobili uscite da Roma per la scampagnata domenicale furono fermate all'altezza della sorgente dell'acqua minerale di S. Rocco dando luogo alla formazione di una coda chilometrica che arrivava fino a Sutri. Gli automobilisti che erano in testa al lunghissimo serpente di macchine, seccati della non prevista interruzione, e discesi dalle vetture per rendersi conto di quanto accadeva si, trovarono di fronte, piacevolissimamente sorpresi, a uno spettacolo affascinante. In mezzo a una folla di gente in festa, accompagnato dalla marziale cadenza delle note di banda musicale e dai primi colpi di bombe di un fuoco d'artificio scendeva lentamente un colorato corteo che richiamava una visione d'altri tempi.

Per chi venga da Roma, percorrendo la Cassia, la vista dell'abitato della Capranica medievale arroccato sulla parte rivolta a sud del lungo promontorio tufaceo sul quale sorge, si svela all'improvviso nel punto in cui la stretta gola che dalle valli di Sutri adduce alle sorgenti di S. Rocco si slarga in una conca dominata dal paese.

L'antica strada che staccandosi dalla Cassia risale il colle di Capranica, supera il forte dislivello iniziale con alcuni stretti tornanti - oggi fiancheggiati da robusti muraglioni che ne impediscono il franamento a valle - il cui tracciato è identico a quello di circa mille anni orsono. Lungo questi tornanti appollaiata ai parapetti si accalcava una folla strabocchevole. In mezzo alla folla andava snodandosi lentamente una lunga processione di uomini indossanti un saio dai colori vistosi: una lunga veste bianca con un mantelletto di panno azzurro detto mozzetta. Se non fosse stata per la presenza di preti in cotta candida sopra la veste nera, che precedevano l'immagine della Madonna, vestita splendidamente di seta e oro in biancoazzurro si sarebbe potuta scambiare la processione per una sfilata in costume. Bandiere azzurre, orifiamma[1], grandi ceri colorati a striscioni banco azzurri a spirale, lampioni settecenteschi, le solenni insegne del comando dei maggiorenti della Confraternita, il Priore e i Deputati, facevano apparire la sfilata più un corteo regale che una celebrazione religiosa.

Quando la testa del corteo sacro incomincia la discesa del primo tornante i colpi delle bombe al fosforo si infittiscono. E’ questo il gran momento del regista dello sparo. Il successo della manifestazione infatti poggia su tre elementi. Primo: il concorso di pubblico. E’ scontata la presenza totalitaria della popolazione locale; quello che conta è la quantità degli «emigrati» con i membri delle loro famiglie ed i conoscenti che affluiscono da fuori. Secondo: il numero dei confratelli che prendono parte alla processione; il dato indica non solo la percentuale di coloro che «si vestono», ma anche l'incremento dei nuovi aderenti. Terzo: la gradualità e l'intensità dello sparo. Occorre ben calcolarne la durata che va, dall'apparizione della testa del corteo sul primo tornante fino all'ingresso del simulacro della Madonna dentro la chiesetta a Lei dedicata, e graduarne sapientemente il «crescendo». La manovra del fuoco è condotta con criteri artigliereschi; si conosce in anticipo il tempo medio della durata del fuoco e si sa perfettamente il quantitativo del munizionamento; occorre adattare il tempo medio previsto al tempo reale del momento, e regolare l'intensità dei colpi in modo tale che la concentrazione massima avvenga negli ultimi trenta metri di percorso.

Aprono il fuoco le raffiche rabbiose dei mortaretti (nel gergo locale: castagnole) piazzate su un fronte di circa trecento metri in modo da ottenere un effetto stereofonico tale che questa pacifica e ingenua manifestazione di gioia riesca a simulare un combattimento in cui la parola è alla mitragliatrice. Tra le sventagliate dei nastri di castagnole si inseriscono sempre più frequenti i colpi dalle bombe prima con salve di batteria poi con salve di gruppi di batterie di dozzine e dozzine di colpi.

C'è un momento culminante dello sparo ed è quello di cui il simulacro della Madonna issato sopra a una grossa portantina di legno laccato in bianco e oro di stile «impero» portata a spalla da quattro muscolosi confratelli, si appresta ad attraversare il nastro d'asfalto della statale e a percorrere gli ultimi metri della spianata davanti alla «sua» Chiesa. Le mitragliatrici sembrano impazzite. I brevissimi intervalli tra nastro e nastro di castagnole appesi a gratelle di incannucciata cui rapidissimi gli artificieri danno fuoco incendiando un brevissimo tratto di miccia, vengono saldati dal lungo ininterrotto multiplo rosario di colpi sgranati del «gelso». Questo bellissimo esemplare di moracea che cresce rigoglioso perché affonda le sue radici nel terreno fertile e umido del fondovalle si trova a un estremo del piazzale davanti alla chiesa. La vigilia della festa le sue fronde ricche di nuove foglie lucenti vengono inghirlandate con lunghe filze di castagnole che le avvolgono completamente, anzi le irretiscono entro una fitta trama che sfrutta sapientemente l'impalcatura dei rami. Le verdi chiome agghindate dagli innumerevoli fili di perle delle castagnole fanno sembrare la pianta una giovane sposa pronta per la cerimonia; in realtà è vestita a festa per il suo sacrificio.

Quando il regista del fuoco ordina il «ciak», per l’incendio del «gelso» è implicito l'ordine di vuotare il sacco di tutte le munizioni disponibili. Il fuoco dello sbarramento aereo delle bombe al fosforo fa tintinnare i vetri delle finestre dell'abitato e delle più lontane case sparse, mentre la terra trema per l'incalzare delle esplosioni degli ottocenteschi mortari allineati in lunga fila sul margine del tratto di Cassia verso la Fonte.

Un momento dello "sparo" del gelso

Ci piace francamente ammettere che lo «sparo», dei mortari (anzi dei «mortali» = strumenti apportatori di morte come più correttamente sono chiamati in dialetto e come si chiamavano nel cinquecento quando furono inventati), è la parte dello spettacolo pirotecnico che ci ha attratto e ci attrae di più di qualsiasi sofisticato altro tipo di fuoco di artificio. Da ragazzo delle elementari non so a quanti accorgimenti ricorrevo e quante pazienti attese ero disposto a sopportare per assistere alla preparazione delle cortissime bocche da fuoco impiegate non per lanciare proiettili, ma per trasmettere il brivido provocato dal formidabile ma innocuo colpo agli spettatori tenuti a ragionevole distanza di sicurezza. Conoscevo a perfezione la tecnica del caricamento: uno strato di polvere nera viene spaso sul fondo; poi sull'esplosivo si immette del calcinaccio; ben compresso, con una zeppa di legno, fin sull'orlo degli enormi bicchieri di bronzo.

Avevo seguito mille volte attentamente la preparazione dei mortali effettuata dal rude manovale che per un paio di volte all'anno si trasformava in artificiere e di cui ricordo perfettamente cognome ed il nome con il quale noi ragazzi rispettosamente lo interpellavamo per chiedergli il permesso di portargli sotto mano i mortali vuoti da caricare. Tutti gli altri (ed anche noi ragazzi non in sua presenza) lo chiamavano con il soprannome, «Bracò»; molti capranichesi di una certa età se lo ricorderanno.

Le nostre simpatie per i mortali non traggono origine soltanto dal fatto che ci permettono il nostalgico ritorno sui favolosi luoghi della memoria dell'infanzia e dell'adolescenza, o, motivo più che valido, perché la loro presenza nello «sparo», lega la manifestazione moderna al1a tradizione ottocentesca della festa (nei manifesti di cento anni fa campeggiava «il fragoroso sparo dei mortari») assicurandone la continuità nel necessario anzi indispensabile processo di aggiornamento. Una volta preparati i mortali vanno disposti in lunga fila a giusto intervallo l'uno dall'altro, con i forellini del fondo rivolti tutti dalla stessa parte. I gruppi dei mortali da far saltare in aria viene stabilito all'ultimo momento per la necessità di sincronizzazione con lo svolgersi della processione e con gli altri elementi dello sparo. Anche lo stradello di polvere nera lungo i mortali viene steso rapidamente e acceso all'ultimo momento. Ma non sempre tutti gli ordigni esplodono. Se il rosario delle esplosioni si interrompe tutti gli occhi delle migliaia di spettatori sono fissi su «Bracò» che in pochi secondi deve decidere se aspettare qualche attimo in attesa dello scoppio, o rinforzare subito lo stradello per appiccargli immediatamente il fuoco.

Non c'è telecomando che tenga. La «suspence», che ci regala (o ci risparmia) il «Bracò» di turno, l'ennesima dimostrazione, cioè, della supremazia dell'uomo su tutti i marchingegni che esso inventa, e poi la tradizione, il folklore, sono i motivi della nostra irresistibile simpatia per i «mortali» l'elemento più bello e più caratteristico dello «sparo».

Quell'undici maggio 1958 era la centocinquantesima volta che la stupenda processione si ripeteva. La Confraternita di Maria SS. delle Grazie solennizzava quel giorno il compimento del terzo mezzo secolo di vita, essendo stata fondata nei primi mesi dell'anno 1808. Un anno di terribile crisi nella storia della Chiesa e soprattutto dello Stato temporale. Tre anni prima Napoleone aveva fatto occupare Ancona, e in seguito anche Civitavecchia. Allo scadere del 1807 l'occupazione era stata estesa alle provincie di Urbino, Macerata, Fermo e Spoleto. Ai primi del gennaio 1808 la situazione precipita. Due eserciti napoleonici: quello del generale Miollis dalla Toscana e quello del generale Lemarois da Ancora muovono su Roma e la occupano il 2 febbraio. Il comandante delle truppe d'invasione, generale Miollis, ha l'ordine di procedere al graduale smantellamento silenzioso dell'Amministrazione pontificia. Pio VII protesta. Sarà arrestato nei suoi appartamenti al Quirinale nottetempo e deportato nel luglio del successivo anno.

Insegna della Confraternita che i confratelli portano cucita sulla mozzetta

Come tutte le confraternite, quella capranichese di Maria SS. delle Grazie, sorta nel pieno di una situazione di sfascio dello Stato della Chiesa perseguiva fini di pietà, di culto e di beneficenza. Ma accanto a quello istituzionale, ebbe lo scopo non dichiarato di organizzare «la resistenza» (in un primo tempo passiva ma non per questo meno efficace) all'oppressione dall'esterno, stringendo nelle file dell'associazione religiosa tutti quei cittadini che non se la sentivano di assistere al succedersi degli avvenimenti come rassegnati impotenti spettatori. I confratelli delle Grazie, terzanotti contadini artigiani (il patriziato terriero venne, in numero esiguo, dopo) erano soprattutto uomini «nuovi» cioè gli esponenti della nuova mentalità espressi dalle vecchie classi contadine e dalla vivace classe emergente di allevatori e di artigiani. E' l'antico filone pionieristico dei fondatori di Capranica che riaffiora. Mortificato dal paternalistico immobilista regime teocratico, ne diventa in questa circostanza, di fronte allo straniero, il vivace difensore. Lo stesso spirito entusiastico e fattivo emerge qualche anno dopo il mezzo secolo di vita della Confraternita, al tempo della demolizione (1860) e della ricostruzione (1866-1886) della Chiesa di S. Maria. Di tutte le confraternite chiamate alla contribuzione di spese per l'erezione della nuova Chiesa, quella delle Grazie si distinse per il pagamento puntuale e anticipato della quota stabilita dal presidente della Congregazione della Fabbrica Vicario Foraneo don Francesco Petrucci, nonché per il maggior numero di prestazioni di lavoro volontario e gratuito dei suoi Confrati e loro familiari. Nella fase finale della costruzione, che il vescovo Giuseppe Maria Costantini, con inflessibile volontà, voleva portare a termine a ogni costo fu necessario ricorrere al credito; all'esigenza venne incontro generosamente la Confraternita delle Grazie con un prestito, (in aggiunta alle contribuzioni ordinarie) di lire 11.264,97, cifra a quell'epoca notevolissima. Alla scadenza, l° aprile 1886, ne fu chiesta la restituzione.

Monsignor Costantini convocò il Priore che era Tommaso Speranza e lo pregò di indire una congregazione generale per il 21 di quel mese. Sarebbe intervenuto Egli stesso. L'assemblea registrò il tutto esaurito. Il Vescovo, di nobile e ricchissima famiglia di Acquapendente aveva una cultura umanistica eccezionale era oratore affascinante; del suo mandato aveva un concetto altissimo ed anche nelle forme esteriori non abdicava a nessuna delle prerogative ch'egli riteneva inerenti alla sua dignità. Dopo il riguardoso saluto del Priore, rivolse all'assemblea un discorso ch'era un inno all'iniziativa dei capranichesi di erigere il nuovo Tempio ed un vivissimo elogio del determinante contributo dato dalla Confraternita, «alla quale, ebbe cura di sottolineare, la Chiesa serve anzitutto». Nessun accenno al debito: il Priore Speranza volle anticipare generosamente la proposta - che sottopose all'assemblea e fu votata all'unanimità - di ridurlo alla cifra tonda di lire 10.000. Il Vescovo lanciò un'occhiata compiaciuta al tesoriere canonico don Filippo Speranza. Questi disse che poteva rimborsare immediatamente mille lire. Restavano 9000 lire da pagare, ma 1.305 occorrevano per l'altare della Madonna, e quindi il residuo debito era di lire 7.695 che sarebbe stato estinto in piccole rate.

Le celebrazioni del 150° anniversario della Confraternita, posero sotto gli occhi di tutti, anche dei più distratti una nuova realtà capranichese.

Le altre gloriose più antiche e più ricche confraternite, stentavano ad evitare la decadenza solo in virtù del coraggio e dell'iniziativa innovatrice di alcuni Priori. Quella delle Grazie, invece, rivelava un non previsto imponente sviluppo. La ripresa riusciva a contemperare la tradizione - derivata dalla plurisecolare appartenenza di Capranica allo Stato della Chiesa - che misurava l'intensità della fede dal fasto e dal cerimoniale delle manifestazioni (leggi: riuscita delle processioni), con altre iniziative che facendo perno sulla ricorrenza religiosa si inserivano nella marcia di progresso che il paese aveva iniziato. La raccolta dei fondi per le manifestazioni del 3° cinquantenario fu notevolissima. La popolazione di Capranica, dopo la fine del secondo conflitto mondiale si era scrollata di dosso il lungo torpore del ventennio precedente, aveva riscoperto il valore dell'iniziativa, si era buttata a capofitto nella trasformazione della coltura della vite, divenuta antieconomica, in quella più redditizia del nocciolo, e aveva incominciato a costruire freneticamente le sue nuove moderne abitazioni. La sfarzosa celebrazione del cinquantenario, presenta una faccia, tra le più significative, del boom capranichese della fine degli anni cinquanta.

Un momento del passaggio della processione per le vie del borgo, in occasione della festa del 175° anniversario della fondazione della Confraternita, domenica 8 maggio 1983

Quest'anno, 1983, la Confraternita delle Grazie celebra il 175° annuale della sua fondazione. Dal 1958 ad oggi il cammino in avanti non si è interrotto. Molte iniziative sono state coronate da successo, (ricordiamo sopra tutte le altre la costruzione di tombe per i confrati), i molti lavori di ripristino e restauro della chiesetta rurale sono stati portati a termine. Priore, da molti anni, è Sante Oroni, il quale dedica tutto il suo tempo e tutte le sue energie al governo della Confraternita non esitando a rimetterei del proprio quando occorre. Ha due ottimi collaboratori dinamici e fattivi, Giovanni Morera Vice Priore e Luigi Puccica, segretario.

La festa delle Grazie ha accentuato in questi ultimi anni, il carattere di «sagra capranichese», di festoso raduno di compaesani vicini e lontani, di motivo di propulsione culturale e di richiamo turistico. Si è tenuta lontana dal pericolo di cadere in manifestazioni di maniera che puzzano lontano un miglio di imitazione di vieti modelli e di provincialismo.

Certo, l'aggiornamento e l'ammodernamento delle manifestazioni della «sagra», sono condizioni indispensabili per assicurarne la continuità e il successo. Coloro che hanno o avranno responsabilità organizzative debbano avere coscienza dei formidabili «atouts»[2], di cui dispongono in partenza: lo scrigno, vale a dire la bellezza dello scenario dell'ambiente naturale e la possibilità di contare su una corale partecipazione di popolo.

(Giuseppe Morera, Festa di maggio, in Tragececo. Racconti capranichesi, Roma 1983, pp. 71-81)



[1] Stendardo con le insegne della Confraternita (n.d.r.)

[2] Dal francese = risorse, punti di forza. Giuseppe Morera era stato militare di carriera e venne collocato a riposo con il grado di generale. Il suo lessico risente quindi di alcune terminologie militaresche (n.d.r.)


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MORERA, Giuseppe, «Festa di maggio. La festa "delle Grazie" nei ricordi di Giuseppe Morera», Capranica Storica, 05/05/2022 - URL: https://www.capranicastorica.it/2022/05/festa-di-maggio-la-festa-delle-grazie.html

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